I fighi non sbagliano mai?
Le persone che invidiamo, che ci sembrano più brave, più fortunate o più felici… lo sono perché hanno fatto meno errori, avuto meno “batoste”, nella vita?
No. E’ vero l’esatto contrario. Pare che per il successo, il fallimento sia un ingrediente fondamentale.
Direte: lo so già, l’ho letto su Facebook, in quel post sul maestro zen che dice prima di imparare a saltare devi imparare a cadere. E poi quello che l’autrice di Harry Potter era disoccupata divorziata e depressa mentre scriveva il libro e che Heinstein andava male a scuola e che Walt Disney era stato licenziato perché aveva poca fantasia.
State tirando fuori i telefonini? Ah si, c’è anche Steve Jobs licenziato dall’impresa che aveva fondato. Poi se l’è ripresa.
Quindi fallire è figo? No. E neanche soffrire, essere isolati, sentirsi diversi, avere paura.
Figo è raccontare quanto difficile è stato raggiungere la cima, dopo essersi goduti il panorama. Quello che mi chiedo, dopo due anni di uso “empirico” di Facebook come strumento di lavoro, è: a che frequenza di utilizzo, questo mezzo ci impedisce di “goderci il panorama” , perché lo vogliamo solo fotografare? E che effetti ha una preferenza, indotta dall’uso ripetuto e rinforzato contingentemente (è una forma di condizionamento operante!) per il POST rispetto all’INCONTRO, per il SELFIE rispetto alla PARTECIPAZIONE, sul cervello? Sul comportamento? Sulla qualità della vita?
Su Facebook, il nostro album fotografico pubblico funziona come quello che un tempo era privato: mettiamo, comprensibilmente, le nostre foto migliori (e gattini, polemiche e video stupidi, poiché i “like” fungono da feedback sociale con valore di rinforzo).
Ci mostriamo al meglio: il giorno della laurea, un bacio al tramonto, il miracolo della nascita di un figlio, i simpatici scherzi di coppia, una nuova auto, una bella nevicata, una vacanza al mare, una soddisfazione sul lavoro, una tavolata di amici.
Ovviamente nessuno scrive che si è laureato con 102 perché ha avuto grossi problemi con gli esami del 3°anno, non ci si fotografa mentre si piange per essere stati lasciati, né si condividono i pensieri notturni da genitore in difficoltà: “chi è questo bambino, cosa devo fare quando fa cosi?”
Non fotografi il tempo passato a litigare con tuo marito, in vacanza, perché non c’è mai tempo per litigare a casa, e non vuoi fotografare cosa provi mentre sai che i tuoi colleghi si sono riuniti per parlare di te. Vai avanti, aspettando il prossimo scenario degno di uno scatto.
La ricerca in psicologia neurocognitiva mostra che la memoria funziona proprio così: ci dimentichiamo selettivamente alcune cose e ci ri-narriamo continuamente il passato in funzione di creare una storia “accettabile”, che abbia senso” e che sia il più possibile positiva. Questo processo è importante e utile. Ha che fare con la nostra salute psicologica: è dimostrato che chi soffre di depressione ha una memoria storica molto più accurata rispetto a chi non ne soffre.
Tecnologia e mercato ci hanno “regalato” uno strumento che controlla il nostro comportamento in modi che conosciamo ancora parzialmente e non possiamo del tutto controllare (oltre una certa frequenza di utilizzo, la “dipendenza” dal controllo compulsivo dei social sul telefonino è indotta da meccanismi di rinforzo simili a quelli che si innescano nella dipendenza da gioco d’azzardo o “macchinette”).
Corriamo un rischio collettivo: quello di dimenticarci che una buona vita, come la salute e la felicità, è un percorso, è un continuo di stati, non una sequenza di istantanee.
La vita, insomma, è quello che succede tra un post e l’altro e, se superiamo certi “dosaggi” di “click”, rischiamo di perdercela.
Per noi che lavoriamo CON le persone, PER la salute e la felicità delle persone, è importante educarci ed educare a un uso consapevole, limitato alle reali esigenze individuali, dei social network. Errepiù è nato anche per questo: Facebook non è il nemico, è un mezzo (media). Prima di postare un contenuto o una fotografia chiediamoci:
- È vero?
- E’ utile?
- E’ per me, per alcuni o “per tutti”?
Spaventa scoprire la difficoltà che si incontra nel rispondere a queste domande, tanto grande quanto più grande è il “bisogno di fare click”.
Per approfondimenti:
Eszter Hargittai, E. (2008) Whose Space? Differences Among Users and Non-Users of Social Network Sites, Journal of Computer-Mediated Communication 8, (pp. 276-297)
Zagorski, N. (2017)Using Many Social Media Platforms Linked With Depression, Anxiety Risk Clinical and Research News, American Psychiatric Association
Kensinger, E. A. (2011). What we remember (and forget) about positive and negative experiences. American Psychological Association-Psychological Science Agenda
LINK
http://www.apa.org/science/about/psa/2011/10/positive-negative.aspx
http://psychnews.psychiatryonline.org/doi/full/10.1176/appi.pn.2017.1b16